Paranoia anglosassone

di Riccardo Viscardi

Leggere le riviste straniere sul vino mi piace molto. Non è solo un aggiornamento ma sono sempre curioso di sapere come il vino italiano venga “letto e interpretato” fuori dai confini nazionali. Ultimamente mi sono concentrato sulla stampa inglese che mi lascia sempre sbalordito. Se leviamo pochissimi nomi ormai storici che dimostrano un’incredibile vivacità mentale e sono attenti alle nuove concezioni del vino italiano, la maggior parte sono ancorati ad alcuni concetti, o preconcetti, legati a un déjà-vu che gli fa sfuggire le tante nuove interpretazioni dei vitigni e delle zone italiane. Un rifiuto totale verso la ricerca, l’innovazione tecnica e tecnologica che molti produttori stanno proponendo.

Probabilmente la natura mercantile della “perfida Albione” e la necessità sistematica e mentale di ordinare tutto in una categoria, commerciale prima ancora che qualitativa, favorisce questo approccio che porta all’immobilismo. Risulta evidente che la visione del vino italiano sia estremamente legata a tratti fino ad ora tradizionali e chiusi in scomparti molto rigidi.

Per esempio, il Brunello di Montalcino – così come il Barolo – deve avere profumi piuttosto terziari; l’Amarone della Valpolicella deve ricordare uno Sherry giovane, i bianchi italiani non devono essere profumati e sempre piuttosto corposi; questo accade per i nostri migliori, dove almeno la categoria di appartenenza è solo stilistica, va molto peggio a denominazioni meno famose, che oltre alla gabbia stilistica finiscono in una gabbia dai rigidi confini economici. Mi risuona in mente la frase di un esponente australiano di un’importante associazione di cultori del vino (quasi tutti assoldati da importanti buyer mondiali) secondo la quale un Grillo non poteva costare più di cifra ben definita e funzionale al costo di un vino neozelandese.

Penso che alla base di tutto ci sia una grande attenzione a tutelare la produzione vitivinicola dei paesi del Commonwealth in un’ottica imperialistica tanto cara ai britannici. Quindi ove possibile vini da vitigno e collocati commercialmente secondo schemi atti a valorizzare i vini australiani e neozelandesi. Ovviamente i vini italiani delle zone meno famose, per loro, si vanno a scontrare proprio su questa fascia di prezzo, proponendo inoltre una storia e territori che i suddetti non hanno. Qui scatta la gabbia degustativa e tipologica sempre per evitare un confronto anche sulla piacevolezza o su olfatti più moderni che devono rimanere appannaggio esclusivo dei vitigni coltivati in quei paesi e noti al grande pubblico.

In quest’ottica è evidente che la new age del vino italiano fa una gran paura a chi detiene le redini del commercio dei vini e che riesce a condizionare il mercato stesso e gli stili da proporre ai consumatori. Sono ben accettate le categorie merceologiche, bio, orange, spumanti sempre a basso prezzo, privilegiando i vini di metodo e di vitigno piuttosto che quelli di territorio, a meno che non siano francesi.